Israele - Gaza: diplomazia in panne | ISPI

2021-12-29 08:09:38 By : Mr. Bob Tsai

Dopo aver girato a vuoto per anni, la diplomazia internazionale fatica ad imporre un cessate-il-fuoco tra Israele e la Striscia di Gaza. E la tregua non è che il primo passo per riportare la stabilità in Medio Oriente.

Da due giorni ormai si rincorrono voci di una tregua in fase di negoziazione tra Israele e Hamas, il movimento islamista che controlla la Striscia di Gaza. Ieri per la prima volta dall’inizio del conflitto, il presidente americano Joe Biden ha espresso pubblicamente il suo sostegno ad un cessate-il-fuoco e ha esortato le parti in campo a proteggere i civili, durante una telefonata con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Nel mentre, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan lanciava strali contro le potenze occidentali, accusandole di continuare a vendere armi a Israele e di avere pertanto “le mani sporche di sangue palestinese”. Intanto, dopo tre ore e mezza di dibattito in streaming, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, riunito per la terza volta nell’ultima settimana, ha partorito l’ennesimo pilatesco appello alla cessazione delle ostilità, equamente bilanciato tra “il diritto di Israele a difendersi” e il sostegno all’autodeterminazione dei palestinesi. In un tale clima, se anche la tregua dovesse essere raggiunta, difficilmente si potrà parlare di ‘successo’ della diplomazia: le pressioni di Washington – le uniche in grado di produrre effetti e conseguenze durevoli – sono state tardive e svogliate, mentre quelle dell’Europa sono praticamente inesistenti, visto che nell’Unione a 27 albergano posizioni diverse sul conflitto. È difficile perciò aspettarsi decisioni o mosse capaci di rompere lo stallo dai ministri degli Esteri dell’Ue che si riuniscono oggi. Intanto il conflitto – entrato nella seconda settimana – prosegue: finora ha provocato oltre 212 morti palestinesi, tra cui 61 bambini, e il decesso di dieci israeliani tra cui due bambini.

A sottolineare l’impasse della diplomazia è il quotidiano francese Le Monde che, in un editoriale su quella che definisce “impotenza internazionale”, sottolinea che “il conflitto israelo-palestinese rivela l’ovvio: non esiste una comunità internazionale, ma un mondo frammentato, competitivo, tormentato, privo di una potenza egemone”. Secondo il quotidiano francese, l'epidemia di Covid-19 ha accelerato la disintegrazione dei tradizionali quadri multilaterali. Una disintegrazione a dire il vero già allo stadio avanzato prima dell’arrivo di Donald Trump. La paralisi che ne è derivata è particolarmente evidente nel caso dell’Europa, costantemente divisa e perciò condannata all’irrilevanza. L'Alto rappresentante Ue Josep Borrell ci ha messo una settimana a convocare i capi delle diplomazie dei 27 per cercare di coordinare le loro posizioni, non tanto nella speranza che riescano a farsi sentire, ma che almeno trovino una linea comune sul Medio Oriente. Quasi trent’anni fa l’Europa contribuiva al raggiungimento degli Accordi di Oslo: oggi, il peso specifico degli europei in campo internazionale si è disperso al pari della visione dei ‘due stati’ ispirata da quel processo di pace. 

Dopo giorni di inazione e sostanziale sostegno all’alleato israeliano, l’amministrazione americana ha annunciato l’invio di un rappresentante in Medio Oriente per tentare di calmare le acque. Com’era prevedibile, pur avendo fatto chiaramente capire di volersi disimpegnare dalla regione, Washington ha dovuto fare i conti con le pressioni interne al partito democratico e scansare le accuse di ipocrisia riguardo un tema centrale nella narrativa del nuovo governo: la difesa dei diritti umani. Già il ministro degli Esteri della Cina, presidente di turno del Consiglio di Sicurezza Onu, aveva accusato gli Stati Uniti di essere “indifferenti” alla sofferenza dei palestinesi, non mancando di enfatizzare “doppio standard” di chi condanna Pechino sulle violazioni ai danni della minoranza uigura e oppone il veto a una risoluzione congiunta dell’Onu per i bombardamenti contro i civili di Gaza. Ma a mettere davvero il coltello nella piaga è stato il fuoco amico. Lo Squad team e Alexandria Ocasio-Cortez – astro nascente dell’ala progressista dei Democratici – ha chiesto a Biden in un tweet: “Se l’amministrazione non può opporsi ad un alleato, allora a chi può opporsi? Come possiamo essere credibili quando invochiamo il rispetto dei diritti umani?”. E ha rincarato la dose definendo Israele “uno stato di Apartheid”. L’attuale amministrazione insomma si trova alle prese con un dilemma: non può ignorare né risolvere il conflitto. L’unica cosa che può fare è cercare di gestirlo.

Tra il silenzio assordante dell’Europa e gli Stati Uniti che difendono la loro ‘quiet diplomacy’, Pechino si fa vanti e si propone come mediatrice tra le parti conflitto. Un banco di prova inedito per Pechino ma che offre lustro e che proietta la Cina al centro della scena internazionale, finora incapace di trovare una via d’uscita alla violenza, unica valvola di sfogo, in assenza di ogni minima prospettiva politica. Pechino ha ottimi e storici rapporti sia con i palestinesi sia con gli israeliani. Ha riconosciuto lo Stato di Palestina nel 1988 e nella capitale cinese c'è l'ambasciata palestinese. Nel 1992, ha stabilito relazioni diplomatiche con Israele con cui nel frattempo ha sviluppato molti e proficui rapporti riguardanti, tra gli altri aspetti, i trasferimenti di tecnologia anche militare e il commercio. La proposta cinese – riferisce il quotidiano Global Times – prevede la disponibilità a ospitare colloqui tra le due parti e si articola in quattro punti: cessate-il-fuoco; assistenza umanitaria immediata;  sostegno internazionale attraverso l’Onu, la Lega araba e l’Organizzazione per la cooperazione islamica e ripresa di colloqui finalizzati alla “soluzione dei due stati”, con la creazione di uno stato palestinese indipendente entro i confini del 1967 e Gerusalemme Est capitale. Difficile prevederne l’esito. Ma almeno l’illusione degli Accordi di Abramo, che avrebbero ‘cancellato’ il conflitto senza una soluzione alla questione palestinese, è dissipata una volta per tutte. Sperando lo sia anche il fatto che il raggiungimento di una tregua – ammesso che arrivi – sia da accogliere come un ‘successo’ della diplomazia. Non è che l’inizio.

Di Annalisa Perteghella, ISPI Rsearch Fellow e Coordinatrice scientifica Rome MED Dialogues

"Sul fronte israeliano, il protrarsi della crisi allontana la possibilità di un governo di coalizione guidato da Yair Lapid con la partecipazione della Lista Araba Unita, e prepara il terreno a un quinto round elettorale, da cui la destra religiosa uscirà ancora più forte. Sul fronte palestinese, il rafforzamento di Hamas indebolisce ulteriormente Mahmoud Abbas e Fatah, e implicitamente continua ad assolvere Israele dalla necessità di impegnarsi in un processo politico con i palestinesi. La pressione di Washington su Israele – esercitata dietro le quinte – perché si arrivi a un cessate-il-fuoco potrebbe portare nei prossimi giorni a uno stop ai combattimenti. Senza una seria ripresa del processo di pace, tuttavia, la tregua sarà solo il preambolo a un ennesimo, futuro, ciclo di violenza e guerra".  

A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications)

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